Godfrey Reggio è il regista di culto di quella che è nota come la trilogia “Quatsi” una delle più monumentali e destabilizzanti opere cinematografiche mai realizzate. Quello che segue è un distillato di una conversazione svoltasi in tre sessioni di 2 ore ciascuna. Si tratta dell’unica intervista realizzata in italiano.
L’intera trilogia «qatsi» vuole mostrarci gli effetti della tecnologia sulla natura e sulla vita degli esseri umani e può essere letta come tentativo di svelare la falsità della promessa di “liberazione” che accompagna la diffusione “out of control” della tecnologia, digitale soprattutto, e il suo innervarsi nelle nostre vite quotidiane. Tra i tuoi punti di riferimento c’è il teologo e filosofo francese Jaques Ellul. “Come Heidegger, Ellul ripudia la nozione umanista di una tecnologia quale mero strumento di realizzazione degli obiettivi umani; la tecnologia invece ordisce una nuova e invisibile intelaiatura intorno al mondo in cui viviamo, una struttura potenzialmente catastrofica di conoscenze ed esseri che, ci piaccia o no, ci inghiotte” (E. Davis). Un commento in proposito.
Godfrey Reggio: Dal mio punto di vista la tecnologia non è qualcosa che utilizziamo, è piuttosto l’ambiente dentro il quale viviamo, è ciò che respiriamo; essa è ubiqua come l’ossigeno nell’aria. E dal momento che diventiamo ciò che vediamo, ciò che odoriamo, ciò che tocchiamo, diveniamo l’ambiente in cui viviamo, dunque la tecnologia stessa. E ciò avviene perché non abbiamo vera coscienza di questo ambiente, non ci poniamo domande riguardo ad esso. Con i miei film ho voluto contrastare duramente il punto di vista dominante, tanto accademico quanto popolare, secondo cui la tecnologia sarebbe neutrale. È sbagliato ritenere che tutto dipenda dall’uso buono o cattivo che ne facciamo. È puramente propagandistico ritenere ad esempio che l’uso che fa l’America della tecnologia sia buono mentre quello che ne fanno Saddam Hussein o Al-Qaeda sia cattivo, è ridicolo! La tecnologia non è affatto neutrale; ogni artefatto ha una sua politica intrinseca. Essa non ha solo degli effetti rilevanti sulla società, sulla struttura economica, sulla religione, sulla politica. Tutto oggi esiste immerso nella tecnologia al punto che la tecnologia è diventata il nuovo contenitore della vita. Certo, la vecchia natura e ancora qui ma dal punto di vista della tecnologia essa è solo una fonte di risorse che vanno consumate per permettere alla nuova natura tecnologica di crescere.
Concordo in pieno con Ernst Junger quando afferma che la tecnologia è diventata la nuova metafisica del ventesimo secolo. Ciò vale certamente ancor di più per il ventunesimo.
La tecnologia ci offre un mondo al di là dei nostri sensi, un mondo inafferrabile che non possiamo comprendere pienamente. È pericoloso. Viviamo in un mondo controllato da energie, da processi che non sono percepibili, ai quali non abbiamo accesso, che non conosciamo.
La vecchia natura è unità attraverso una rete di diversità, la nuova natura è unità attraverso l’omogeneizzazione tecnologica. Il vecchio mondo veniva espresso in termini di partecipazione umana attraverso la parola come sua forma più alta. Il nuovo mondo viene espresso da immagini e numeri come forma più alta di comunicazione. Il vecchio mondo è affrontato dagli esseri umani attraverso l’immediatezza delle loro azioni, nel nuovo mondo l’esperienza è mediata dalla tecnologia. Il vecchio mondo era misterioso, il nuovo ci viene solennemente presentato come una certezza.
Cos’è che separa il vecchio mondo dal nuovo mondo, la rivoluzione industriale, l’illuminismo?
Godfrey Reggio: È molto difficile da dire: il fuoco, il linguaggio, la scrittura come opposta all’oralità, la stampa, il Rinascimento italiano col suo impatto su tutto il resto d’Europa, Francesco Bacone e il metodo scientifico per cui ciò che non puoi raggiungere odorare toccare assaporare non è reale, la negazione dello spirito, l’illuminismo, certo, e lo sviluppo della scienza e della tecnologia moderne sono tutte tappe fondamentali del passaggio al nuovo mondo.
Dunque, essenzialmente la nascita della razionalità e dell’empirismo…
Godfrey Reggio: In parte sì. Direi che si tratta di una lunga catena piuttosto che di singoli eventi. Mi sembra opportuno aggiungere che la storia degli esseri umani è sempre stata una storia di guerra. Ma non parlo necessariamente di guerra combattuta su un campo di battaglia, parlo della guerra della vita quotidiana. È il nostro modo di vivere; siano in guerra perenne con il pianeta e con le altre specie che lo abitano. Gli esseri umani sono particolarmente predatori non solo gli uni con gli altri ma con tutte le specie. Nessun animale è al sicuro su questo pianeta, né le piante, né l’acqua, né l’aria. L’ambiente naturale è sotto assedio, ma ciò non significa che sparirà, credo proprio che saranno gli uomini a sparire prima di lui.
Durante l’incontro col pubblico al Future Film Festival 2003 di Bologna hai affermato che “il focus della trilogia «qatsi» è l’assenza di speranza (hopelessness). Il tramonto della speranza.” Un punto di vista sul presente e sul futuro decisamente pessimista. E hai aggiunto che “solo attraverso il pessimismo le cose possono cambiare”, riconoscendo una sorta di valore positivo alla negazione. In che modo le cose possono cambiare? E che “funzione sociale” possono avere i tuoi film?
Godfrey Reggio: Come ho detto alla conferenza di Bologna solo i pessimisti possono cambiare il mondo. Se la gente fosse soddisfatta dello stato delle cose non ci sarebbe nessuna spinta al cambiamento. Il mio punto di vista è al di là del pessimismo; devo avere, o combattere per avere, il coraggio di essere senza speranza riguardo allo stato del mondo al fine di sperare in qualcosa d’altro. I miei film sono stati in questo senso degli esercizi di ricerca nell’oscurità, nella luce accecante della tecnologia. È un punto molto importante se teniamo presente che l’arte è nata nell’oscurità, dall’assenza di forma. Per essere un’artista oggi devi essere disposto ad agire fuori dalla necessità, fuori dal destino, e il nostro destino oggi è la tecnologia, l’ordine, il potere, il controllo. Mi piace guardare indietro alle tragedie greche e dire con esse che non vi è destino che non possa essere scavalcato. Scavalcare il destino è possibile attraverso la resistenza, la ribellione che si nutrono del valore positivo della negazione. Il nemico principale della vita è l’inerzia. E per poter superare l’inerzia della tecnologia è necessario abbandonare la speranza circa l’attuale stato delle cose; ciò non vuol dire che io sia una persona priva di speranza ma che riconosco il mondo in cui vivo, nei termini della sua energia vitale e della sua direzione evolutiva, come privo di speranza. Preferisco rischiare un viaggio nel “vivido sconosciuto” per ottenere il coraggio di abbandonare la speranza così da poter sperare nel futuro.
Uno dei miei mentori ha detto che la libertà è l’abilità di dire no alla necessità tecnologica. Si tratta di un bel punto di contatto con l’idea dei greci che agire fuori dalla necessità sia il ruolo dell’eroe e dell’artista e come abbiamo appreso dalle tragedie greche l’eroe vive molte vite e muore molte morti. Come filmaker so bene che senza il negativo è impossibile la proliferazione di stampe positive. Ma la negatività ha una pessima reputazione oggi. La si medicalizza. Si vuole un mondo ripulito, asettico ed essere negativi significa sentirsi giù, essere depressi. Naturalmente non è il senso che do io alla negatività. Per me essa è un’arma straordinariamente potente, la volontà di essere critici, di mettere in discussione il mondo in cui viviamo.
Stiamo assistendo al tramonto del reale. Gli esseri umani – non dico umanità perché credo che l’umanità non esista che si tratti di una generalizzazione molto reazionaria e assolutamente inutile derivata dalla rivoluzione francese – sono sempre stati aggressivi e violenti ma il modo in cui lo sono oggi non ha precedenti. Le nostre macchine sono molto più imponenti e cominciano a essere dotate di vita propria. E credo che siamo ormai diventati tragicamente schiavi di queste macchine.
Per quanto riguarda la funzione sociale dei mie film, mi piace immaginarmi come una sorta di kamikaze culturale.
Come mai la scelta di un cinema senza dialoghi? Non credi nel potere della parola di svelare il mondo e creare mondi?
Godfrey Reggio: È proprio perché credo nel potere nella parola di svelare il mondo e creare altri mondi, è proprio perché amo la parola, che ho deciso di non usare la lingua. Credo che la nostra lingua si trovi in uno stato di umiliazione profonda, che non sia più in grado di descrivere il mondo in cui viviamo; ed è un dramma che esso sia diventato indicibile. Oggi le lingue ci vengono strappate via. All’inizio del XX secolo c’erano 30.000 fra lingue e dialetti principali sul pianeta, oggi, all’inizio del secondo millennio, si sono ridotte a 4000. Le nostre lingue stanno venendo omogeneizzate, eliminate dall’effetto omogeneizzante della tecnologia e ogni volta che una lingua sparisce è un popolo a sparire.
Pensa al famoso detto di Napoleone che un’immagine vale più di 1000 parole. Ciò che ho tentato di fare con la trilogia «qatsi» è stato di ribaltare questo detto, offrendo allo spettatore 1000 immagini nel tentativo di rendere il potere di una sola parola. Le parole in lingua Hopi che ho usato come titoli non hanno, per noi, il peso di un bagaglio culturale, sono parole che provengono da una cultura orale, da una cultura non “civilizzata”, grazie a Dio. Parole che non comprendiamo ma perfettamente in grado di descrivere il mondo in cui viviamo. Parole aliene, e ciascun film, l’intera trilogia, è un esercizio per rivelare allo spettatore la potenza descrittiva di ognuna di queste parole.
In Koyaanisqatsi e Powaqqatsi ciò che mostri agli spettatori l’hai filmato tu stesso. Al contrario circa il 90% di Naqoyqatsi (l’eccezione è costituita dal prologo) è realizzato con materiale d’archivio manipolato e montato. Cosa intendi dire affermando che “la location del film sono le immagini stesse”? Vuoi che lo spettatore percepisca ciò che vede come privo di referente “reale”?
Godfrey Reggio: Esatto. Tutto il film ha a che fare con la globalizzazione come processo di virtualizzazione del mondo. Una fonte d’ispirazione è stata l’idea di Elias Canetti che la storia non è più reale. Ho girato Koyaanisqatsi nelle società ipercinetiche dell’emisfero nord, mentre in Powaqqatsi fo filmato le culture della semplicità, dell’oralità, del fatto a mano, nell’emisfero sud. Non mi restava che esplorare il regno del digitale, i mondi generati dal computer che stanno scalzando il nostro ambiente naturale. Viviamo circondati dalle immagini, dentro di esse, ed è per questo che ho voluto fare delle immagini il luogo stesso del film. Con le tecnologie digitali le immagini sono diventate pura illusione. Non ci sono limiti alle immagini che possono essere create, almeno da chi possiede le tecnologie. Esercitano un potere di controllo senza precedenti sulle nostre vite e questo perché sono diventate talmente familiari, iconiche, che difficilmente le mettiamo in discussione. Quel che ho tentato di fare con Naqoyqatsi è proprio penetrare l’immagine, torturarla servendomi degli stessi strumenti di tortura digitale che la generano e la diffondono, sovvertirla, ucciderla e farla rinascere.
C’è una scena in Powaqqatsi in cui due palazzi, uno moderno in vetro e cemento, l’altro antico, in pietra, si fronteggiano. Vuoi suggerire, attraverso questa metafora, che tecnologia e “natura” possono coesistere o sottolineare l’invadenza distruttiva della prima?
Godfrey Reggio: È qualcosa di diverso. Si tratta di una Chiesa antica e di un grattacielo e per me sono i simboli dell’autorità del vecchio mondo, la religione, e dell’autorità del nuovo mondo, le corporation. Entrambi questi edifici esistono fianco a fianco, così piazzo la telecamera nel mezzo, monto una lente ad angolo molto ampio e faccio una rotazione di 360 gradi. Ma è un significato suggerito appena. Ci tengo a dire che il significato di questi film non è quello che vi attribuisco io, piuttosto esso si trova nelle orecchie e negli occhi dello spettatore.
In definitiva, secondo te, natura e tecnologia non possono coesistere?
Godfrey Reggio: Non solo possono coesistere. Esse di fatto coesistono, tranne che una sta mangiando l’altra. Non dico che la tecnologia non sia parte della natura, secondo me la tecnologia è essa stessa natura e so bene che non possiamo tornare al tepee o alla caverna, essere uomini o donne primordiali. Viviamo in questo momento: non è possibile fuggire.
Non offro risposte a niente. Voglio mostrare il prezzo dell’ordine tecnologico, della menzogna tecnofelicista, del parlare in termini di nuove utopie, di immortalità virtuale. Non ho risposte da dare, piuttosto voglio sollevare domande che in qualche modo entrino in risonanza con chi vede i miei film. Credo che i film somiglino molto a concerti musicali. Se vai a un concerto di Vivaldi non dovresti mai chiederti qual è il significato della singola opera che hai ascoltato. Puoi chiederti piuttosto se l’ascolto del linguaggio musicale di Vivaldi sia stata per te un’esperienza ricca di significato. È proprio ciò che cerco di offrire: esperienze ricche di significato, piuttosto che il significato di qualcosa; Il significato, in questo senso, e nell’occhio dello spettatore. Se ci sono 100 persone in sala la mia speranza è che ci siano 100 differenti prospettive o punti di vista rispetto al significato dei miei film.
Sempre in Powaqqatsi c’è una scena, girata a Iquitos in Perù, con una bambina di fronte a un muro con su scritto, a lettere enormi, “Viva la guerra de guerrillas”. È una provocazione politica intenzionale, questa tua?
Godfrey Reggio: Certo alla fine è risultata una provocazione, ma non è stata intenzionale. Mi trovavo già lì a filmare schemi di traffico e a un tratto ho visto in fondo alla strada questa ragazzina così bella, così curiosa, colma di meraviglia per quel che facevamo. Così ho detto al direttore della fotografia di smettere immediatamente di filmare il traffico e riprendere lei. Nell’inquadratura è rientrata anche quella scritta sul muro. Se non fosse stato per il passaggio della bimba e per la giustapposizione di quella meravigliosa presenza e dello spettro della guerra, non penso che avrei filmato la scritta. Dunque, è qualcosa che è accaduto spontaneamente e, ancora una volta, ciò che la scena provoca nello spettatore differisce notevolmente da una persona all’altra. Vorrei aggiungere qualcosa riguardo alla curiosità della bambina per la macchina da presa. Generalmente quando filmi nell’emisfero nord, nelle società industrializzate, e piazzi la cinepresa di fronte a qualcuno, questi diventa autocosciente: io io io. Se fate la stessa cosa nell’emisfero sud, poiché l’ego non è così gonfio e bramoso di appagamento come nelle società industrializzate, la gente reagirà con maggiore curiosità e genuinità. La cinepresa agisce come un magnete. La gente la osserva come rapita. E i loro sguardi sono i loro “veri” sguardi, non sono diretti da un regista. E quegli sguardi giungono, attraverso la cinepresa, direttamente agli occhi degli spettatori.
Penso sia un atteggiamento più interessante verso la vita: curiosità piuttosto che autocoscienza.
Godfrey Reggio: Il mio obiettivo nel fare dei film senza parole, basati sulla suggestività delle immagini, che usano la musica come narrazione, è di far viaggiare, di condurre lo spettatore in un altro posto. Le droghe sono sempre state usate non per farci del male ma per far fronte alla “noia” della vita quotidiana. E ciò vale probabilmente fin da quando siamo scesi dagli alberi, o da quando ancora ci abitavamo sopra. L’intossicazione è stata sempre qualcosa a cui gli esseri umani, così come altri animali, del resto, hanno fatto ricorso nel tentativo di trascendere la vita, di andare in altri luoghi. Perciò, se i miei film funzionano, in tal senso, da equivalenti di una droga non posso che esserne lusingato.
La maggior parte dei film solo lineari, raccontano una storia. La cinepresa è schiava del soggetto o della narrazione e tutto si risolve nel quanto il film è girato bene, la caratterizzazione e la trama sono ben strutturate, ecc. Nella mia trilogia non c’è una storia lineare, il che non significa che non vi sia una storia, ma certamente essa permette maggiore libertà allo spettatore di andare dove vuole, di avere un’esperienza insomma.
Dai 14 ai 28 anni sei stato un membro della “Christian Brother”, un monaco cattolico romano. Certamente questa esperienza ti ha profondamente influenzato per poi confluire nel tuo lavoro di regista. C’è una sorta di tensione costante, nel tuo lavoro, tra peccato e redenzione… ce ne puoi parlare?
Godfrey Reggio: Non direi che è proprio confluita nel mio lavoro. Credo che la vita proceda in modo “discreto”, proprio come nella sfera del digitale, eppure è anche vero che ogni esperienza, in qualche modo, conduce alla successiva.
Quando avevo quattordici anni ho avuto la grande opportunità di comprendere che la cosa più pratica che potevo fare nella vita era essere un idealista. Non lo avrei mai imparato nel cuore della società americana, è qualcosa che ho appreso dalla tradizione monastica, dai margini del sistema. Mi è stato insegnato a condurre una vita assolutamente non pratica. Ho capito che la cosa più meravigliosa che uno possa fare è perdere il proprio sé, vivere per gli altri. Cose come queste sono completamente aliene a ciò che il sistema educativo americano e occidentale in genere ci incoraggiano a fare.
Da giovanissimo ho vissuto assai intensamente e avevo già cominciato ad annoiarmi quando sono venuto in contatto con questi fratelli. Fui molto sorpreso dalla grande gioia che c’era nelle loro vite e ciò, credo, mi spinse unirmi a loro. Naturalmente non avevo un’idea precisa di ciò che stavo facendo. Come molti di noi ho fatto la cosa giusta per la ragione sbagliata, ma non ha importanza, è stata comunque una grande opportunità di uscir fuori dal mondo in cui mi trovavo, di aver accesso a un universo assolutamente nuovo. Per quanto riguarda i temi del peccato e della redenzione, della salvezza, non saprei cosa rispondere. Certo sono profondamente cristiano (e questa forse è sufficiente come risposta) ma, ci tengo a dirlo, non faccio più parte di alcuna chiesa organizzata. Sono un seguace di Gesù, colui che ha vissuto la sua vita nell’amore per gli altri. Sono assolutamente convinto che si tratti di una lezione da cui il mondo potrebbe ancora trarre un beneficio immenso. Il potere temporale della Chiesa cattolica, invece, mi sembra un effetto collaterale della missione di Gesù Cristo. Sono assolutamente critico verso ogni forma di potere umano. Il potere si esprime sempre in termini di controllo delle persone. Cristo ci ha insegnato l’umiltà, il sacrificio e l’amore per gli altri. Ricordo la mia prima visita a Roma nei primi anni ’80. Essendo stato monaco, Roma aveva un posto centrale del mio immaginario ed ero molto eccitato all’idea di vedere il Vaticano. Eppure mi fece un effetto assolutamente negativo. È un palazzo che ci riduce al ruolo di spettatori: spettatori dell’enorme potere della chiesa sugli esseri umani, sulle anime. Il ruolo della chiesa non dovrebbe riguardare questo mondo ma il mondo dello spirito, il mondo al di là delle apparenze. Ciò che il Vaticano incarna è quanto di più lontano dall’insegnamento di Cristo.
In Koyaanisqatsi ci sono delle sequenze molto frenetiche in cui viene seguita la sorte di alcune merci (jeans, televisori, automobili, computer e cibi in scatola) dalla produzione alla messa in vendita in ipermercati affollatissimi. Un tripudio di confezioni multicolore, cromate, iridescenti: carte lucide, latte smaltate e soprattutto cellophane. Asettico per antonomasia, esso è il materiale della profilassi che impedisce all’uomo il contatto “erotico” col mondo.
In Naqoyqatsi, invece, è mostrato un supermercato inabitato, ordinatissimo, spettrale: si tratta della vittoria definitiva della merce sull’uomo?
Godfrey Reggio: In un certo senso sì. In Koyaanisqatsi cerco di mostrare che l’accelerazione è diventata il nostro ambiente vitale, non si tratta di qualcosa che agisce sulla vita, ma diventa l’ambiente stesso in cui questa si svolge. E la vita che viviamo, che è mossa interamente dalla tecnologia, ruota tutta attorno alla produzione e al consumo di merci e nella misura in cui le consumiamo senza porci domande diventiamo noi stessi queste merci. Anche in Naqoyqatsi mostro tutto ciò, ma si tratta di un processo già ultimato, siamo ormai diventati le merci.
Vorrei tornassi su un punto sul quale capisco che ci troviamo d’accordo. Ogni artefatto, in se stesso, nella sua inerzia, fin dal momento della progettazione, è uno spazio per l’occultamento di regole e norme sociali: agente subdolo di un potere ovunque innervato.
Godfrey Reggio: Nella nostra cultura è ciò che possiedi a determinare il tuo valore, non ciò che sei ma ciò che hai. Si tratta della ricerca della felicità tecnologica, e il suo prezzo è la distruzione e l’estirpazione di molte altre specie, certamente di molte specie animali. Ma cosa sappiamo in fondo delle merci che consumiamo? Solo ciò che ci dicono coloro che le fabbricano. Il 99% di ciò che sappiamo della tecnologia non deriva dall’osservazione personale, ma da quel che ci racconta chi la progetta, chi la impacchetta per noi. Ci stanno vendendo un modo di vivere, ci promettono la salvezza, ci assicurano che ingoiando la pillola giusta staremo meglio, che comprando la macchina giusta saremo persone migliori, guadagnando molto denaro la nostra vita avrà davvero senso. Tutto ciò produce tristezza, isolamento. Più una società è opulenta più i suoi membri sono isolati l’uno dall’altro poiché hanno troppo da proteggere. Naturalmente non tutti hanno accesso al benessere e ciò produce ineguaglianza e ingiustizia. Dunque, la ricerca della felicità tecnologica, come consumo di beni materiali, non può che rivelarsi fallimentare. Tutto il nostro sistema educativo è basato su questo, lo stesso titolo di studio è diventato merce, un mezzo per fare soldi. Non ha più niente a che fare con la ricerca della verità, l’andare in posti sconosciuti per scoprire cose che non sappiamo.
Penso che ciò sia particolarmente vero negli Stati Uniti…
Godfrey Reggio: Certamente. L’America è il posto dove viene testato il futuro. È un paese desiderabile e biasimabile allo stesso tempo. È una contraddizione offerta al mondo. La gente ci vuole venire ma allo stesso tempo odia l’America per il suo strapotere. Possiamo guardare all’America per capire dove il mondo sta andando. La Cina sta diventando esattamente come l’America e anche l’Europa, mi dispiace dirlo, ha avviato un processo di mercificazione della vita per cui ciò che hai è ciò che sei.
Quella americana è una società di massa. Nessuno si preoccupa degli altri, non ha il tempo per farlo, verrebbe distolto dal suo lavoro, dalla possibilità di far soldi. Puoi vedere ovunque, per le strade, una povertà enorme, soprattutto fra la gente di colore. È ciò che il mondo sta diventando. L’America rappresenta lo stesso, essa appiattisce l’altro su di sé. In questo senso ci fornisce un chiaro esempio di ciò che ci si deve sforzare di non essere.
Godfrey Reggio: Esatto. Il fascismo del XX secolo è simbolizzato dalla svastica; il nuovo simbolo del tecno-fascismo, secondo me, è il “pianeta blu”. Esso è ubiquo, è usato dalle Nazioni Unite, dalle chiese, dai governi, dalle società no profit, dalle ONG, dalle corporation, dalle scuole come la nuova immagine guida del mondo, ma per me si tratta dell’immagine quintessenziale dell’ordine tecno-fascista. Un ordine che mantiene l’unità attraverso la tecnologia, l’omogeneizzazione. Non abbiamo più a che fare con Hitler o Stalin o Mussolini, che ancora molte persone in Italia sembrano enfaticamente amare. Il tecno-fascismo ci offre la redenzione. La tecnologia è il nostro biglietto per la felicità, ci dicono, ma essa elimina l’individuo, elimina le comunità, elimina le lingue, elimina l’amore per la verità, la capacità di pensare ad altro fuorché a se stessi.
All’inizio di Koyaanisqatsi, come hai detto tu stesso, ci mostri “la Terra senza relazione con gli uomini, con la propria magnificenza, la propria coscienza.” Dopo una ventina di minuti mostri alcune grandi opere dell’uomo: una scavatrice a lavoro, chilometri di cavi dell’alta tensione, pozzi petroliferi, tre imponenti ciminiere fumanti. E così fino a giungere nel cuore di megalopoli dominate da grattaceli e flussi esasperati di traffico.
La natura arretra incapace di reagire. L’uomo la sta spazzando via. Eppure, le suo opere, così come ce le mostri, emanano una certa solennità, quasi come monoliti primitivi. Mario Perniola, in un libro in cui esamina anche il tuo primo film, parla a tal proposito di “sex-appeal dell’inorganico”. La tecnologia contemporanea mostra dunque due facce di orrore e bellezza?
Godfrey Reggio: Si tratta di una questione per me molto importante. Ritengo che mostrare l’orrore solo nella sua componente di brutalità, e mi riferisco a ciò che avviene in Africa centrale, in Medio Oriente, o a quanto è accaduto al World Trade Center, non sia utile a cambiare la gente. Mi piacerebbe che servisse, che bastasse, ma non ha effetto. Vedere ripetutamente l’orrore della Seconda guerra mondiale non ha impedito che ci fossero altre guerre. C’è in corso una guerra mondiale in Africa e nessuno vuole ammetterlo. È per questo che ho provato a mostrare non l’orrore ma la “bellezza della bestia”, una nozione che credo corrisponda a ciò che Mario chiama il sex-appeal dell’inorganico. In Koyaanisqatsi mostro ciò che noi stessi celebriamo come i nostri più grandi successi e guardo tutto ciò con un punto di vista inedito. Chi vive immerso nella tecnologia è colpito dalla sua solennità, dalla sua imponenza. I grattacieli sono nuove cattedrali gotiche che impressionano la gente catturandone lo sguardo. Chi vive nelle città industrializzate vede solo strati di merci impilate una sull’altra. Non siamo più in grado di guardare oltre, di accorgerci che ci siamo chiusi in un ambiente artificiale che sta rimpiazzato la natura. Non viviamo più con la natura, viviamo al di sopra di essa. La consideriamo solo una risorsa per mantenere in piedi l’ambiente artificiale che abbiamo creato. Powaqqatsi (dall’Hopi powaq stregone e quatsi vita) significa un’entità che consuma le forze vitali degli altri esseri per mantenersi in vita. La sequenza di immagini pubblicitarie che separa le due parti del film, mostra la natura seducente di questo stregone. Il modo in cui agisce un powaqqa, uno stregone nero, è attraverso la seduzione e l’allettamento. Non si tratta di un’aggressione frontale, ma subdola. È il modo in cui opera la tecnologia: crea desideri che divengono necessità, ci illude di abitare nel migliore dei mondi possibili. Ed è questo che intendo parlando di bellezza della bestia.
Naqoyqatsi si apre con un disegno di Brueghel the Elder della Torre di Babele. Un monito contro il tentativo di omogeneizzare il mondo, di ridurre l’altro nello stesso, che si esemplifica nella pretesa di una lingua unica?
Godfrey Reggio: La torre di Babele mi sembra più una straordinaria prefigurazione del presente che uno dei grandi miti del passato. Essa è fuori dal tempo e ha che fare con l’omogeneizzazione delle lingue. Brueghel realizzò quattro disegni preparatori della torre prima di dipingere il suo quadro. Si recò a Roma agli inizi del ‘600 per studiare il Colosseo facendone la base della sua versione della torre. Nella sequenza iniziale di Naqoyqatsi c’è un’immagine che segue la torre di Brueghel ed è l’architettura neoclassica, anch’essa ispirata al Colosseo, di una stazione ferroviaria che si trova a Detroit e per me simbolizza l’autorità della cultura occidentale, la civiltà occidentale rappresentata dai romani e dalla loro architettura.
Anche quando, nei tuoi film, la vita umana sembra rattrappirsi, sparire, ciò nondimeno sono presenti i corpi. Il corpo frenetico di Koyaanisqatsi, ridotto a ingranaggio della città-macchina che ha costruito, a frammento di un paesaggio artificiale. Il corpo a lavoro di Powaqqatsi (lavoro da te monumentalizzato al di là del suo proprio carattere costrittivo, e al quale tutta la prima parte del film canta un inno); ma anche corpo emotivo, che prova emozioni ed emoziona: penso alla carrellata sui volti dei bimbi indiani (l’infanzia del mondo?) con tutta la gamma di reazioni emotive di fronte alla cinepresa. E infine, in Naqoyqatsi, il corpo irreggimentato: corpo militare, corpo in parata, corpo atletico. Sempre più il corpo umano è il campo sul quale si esercita la tecnologia con le sue promesse di farci trascendere i nostri propri limiti…
Godfrey Reggio: È vero che nei tre film mostro le persone in modi diversi. In Koyaanisqatsi esse sono molto stilizzate, le ritraggo in fermo immagine per sottolineare il loro essere bloccate all’interno della macchina in cui vivono; in Powaqqatsi ho provato a mostrare la verginità, l’innocenza, la curiosità di persone che ci guardano dallo schermo; in Naqoyqatsi mostro come il corpo umano sia diventato il nuovo campo di battaglia, la nuova regione selvaggia verso la quale ci spingiamo nella convinzione di dover partire da lì per potere riprogettare noi stessi. Il nostro corpo è umiliato dalla malattia e in ultimo dalla sua mortalità e l’uomo ha sempre cercato di depurare la vita dalla malattia e dalla morte. Penso si possa comprendere una società a partire dalle utopie che essa ha generato e l’utopia dei nostri giorni è l’immortalità virtuale. Ci viene promesso che potremo trasferire il nostro sé dal contenitore di carbonio a un contenitore di silicio e così vivere virtualmente per sempre. La spacciano per liberazione ed è la nostra moderna schiavitù.
In Naqoyqatsi c’è una lunga sequenza di atleti in azione soprattutto nei giochi olimpici. Se da un lato il corpo atletico libera prestazioni prima impossibili dall’altro vi arriva solo attraverso l’irregimentazione tecnologica. È questo che hai voluto esprimere?
Godfrey Reggio: L’atletismo, lo sviluppo olimpico, hanno oggi a che fare unicamente con la costruzione del superuomo, sono esempi di ciò che fanno gli stati nazione per indicare il loro potere al mondo. Le Olimpiadi del XX e del XXI secolo non hanno niente a che fare con le Olimpiadi greche. Le Olimpiadi moderne, iniziate dagli Stati Uniti alla fine dell’800 hanno il solo scopo di celebrare la gloria e il potere degli stati industrializzati e non è un caso, infatti, che i partecipanti dei primi giochi olimpici fossero solo gli stati industrializzati. Le nuove Olimpiadi ebbero inizio nel 1896, lo stesso periodo in cui cominciano le fiere e le esposizioni mondiali che avevano lo scopo di presentare alla gente il progresso tecnologico. Non si tratta di glorificare il corpo dell’atleta attraverso le sue prestazioni ma di glorificare il corpo dello Stato. È per questo che si vuole superare la fragilità umana e costruire un superuomo. Hitler articolò il discorso sul superuomo con parole mostruose e razziste che noi oggi condanniamo ma, di fatto, perseguiamo il suo stesso obiettivo: creare un mondo di superuomini.
“Ormai siamo divenuti cyborg”, affermi spesso. E lo dici in un’accezione assolutamente negativa. Eppure c’è chi vede nella figura del cyborg, nel connubio con l’artificiale, una possibilità di rifondazione, di rinascita dell’uomo. Tu che ne pensi?
Godfrey Reggio: Forse, ma non sta accadendo adesso. Quel che accade ora è che la fantascienza ci parla sempre più spesso di cyborg e tutto ciò, secondo me, non ha a che fare con la finzione; il futuro prefigurato dalla fantascienza è già qui. Siamo dei cyborg già solo quando indossiamo delle scarpe da tennis, guidiamo un’automobile, viviamo immersi nel fuso elettromagnetico delle nostre società industrializzate. Siamo già fusi con la tecnologia. Siamo diventati la nostra tecnologia, le nostre apparecchiature senza porci la domanda di cosa queste apparecchiature ci stiano facendo. Tutto ciò, come ho già accennato prima, produce isolamento. Più una società è ricca più essa è isolata, più le comunità spariscono, ed è questo che io intendo quando parlo di divenire cyborg. Viviamo in una società di massa in cui le informazioni sono costantemente manipolate, in cui lo sport è diventato la nuova religione, in cui il lavoro e il denaro sono la cosa più importante, in cui gente si sposta in media ogni tre quattro anni senza stabilirsi in nessun luogo, in cui la velocità è diventata il vero ambiente in cui le nostre vite si svolgono. Viviamo in una società in cui la bandiera americana è diventata un bavaglio attorno alle nostre bocche piuttosto che un simbolo di libertà e giustizia. Criticare non è patriottico e ci si ammanta della bandiera al solo scopo di produrre conformità. Nel regno della cecità verso il quale la storia procede l’occhio è un martire, l’occhio viene assassinato, poiché esso vede delle cose che disturbano gli altri. Oggi dire apertamente ciò che si pensa, per amore di ciò che questo paese dovrebbe essere, sta diventando sempre più pericoloso.
I tuoi film hanno sempre suscitato reazioni opposte da parte di spettatori e di critica. Ormai ci sei abituato. Una critica particolarmente dura, all’indomani dell’uscita di Naqoyqatsi, ti è stata mossa da Ann Hornaday che sul Washington Post titola il suo articolo “qual è la parola Hopi per «film trito e noiso?»”. La Hornaday sostiene che “la realtà sta superando velocemente il punto di vista del regista” e ti accusa di ricorrere a manipolazioni digitali dell’immagine incapaci di sorprendere uno spettatore ormai ubriacato dallo stile di MTV e della pubblicità. Come rispondi a questa critica? Certamente puoi far notare come sia stato proprio Koyaanisqatsi a influenzare, col suo stile visivo, il linguaggio di tanti videoclip e spot, ma temo non basti…
Godfrey Reggio: La parola con cui in lingua Hopi si esprime il concetto di noia si traduce letteralmente con “già visto in tutti i suoi aspetti”. Nella mia lunga carriera di educatore ho capito che la gente impara in termini di cosa già conosce. Naqoyqatsi è un film molto astratto. In esso cerco di mostrare ciò che già conosciamo ma da un punto di vista inedito, cosicché le immagini scelte sono iconiche e l’icona è, per definizione, ciò che ci è familiare. La sfida è stata proprio partire dal nostro “venerato familiare”, da ciò che abbiamo visto fino alla nausea. Le immagini sono diventate una specie di carta da parati che tappezza interamente le nostre vite. Ho voluto partire da queste immagini ripresentandole, rimescolando il mazzo, allo scopo di mostrarle in modo nuovo, di rivivificarle. Diversamente dagli altri due film il tema centrale di Naqoyqatsi è la produzione digitale, l’universo digitale in cui viviamo, qualcosa di completamente straniero al mondo naturale che ci ha originati. Naturalmente posso aver fallito nel mio obiettivo e Ann Hornaday è proprio di questo avviso. Del resto, si tratta solo di una recensione e dovresti vedere tutte le altre recensioni negative che ho ricevuto! Ho smesso di preoccuparmene più di tanto.
Per quanto riguarda Koyaanisqatsi, è vero che ha influenzato profondamente il linguaggio pubblicitario e di MTV e ancora non ho capito che effetto mi faccia la cosa. Tutto ciò che ha avuto anche solo un remoto successo viene ingoiato dalla bestia, non posso farci niente.
C’è un solo momento in Naqoyqatsi in cui è udibile un rumore d’ambiente (o almeno in cui esso viene ricreato dalla musica). Ci mostri un sito industriale spazzato da un vento il cui fischio amplifica il senso di vuoto suggerito dalla scena. Un’opera dell’uomo senza uomini: svuotata d’umanità.
Tutto il film mi pare in qualche modo incentrato sulla sparizione dell’uomo. Gli effetti digitali lo riducono spesso al negativo, alla radiografia, all’ombra, al fantasma di se stesso.
In una scena particolarmente poetica del colore bianco (forse il colore dominante del film, col suo andare dall’opacità, alla traslucidità radiografica, alla trasparenza) si spande su un fondo nero dissolvendosi come gocce di latte in un oceano definitivo.
Un’alba di nerità ci attende? L’uomo è destinato irrimediabilmente alla sparizione?
Godfrey Reggio: Posso solo far ricorso alla mia limitata intelligenza per provare a rispondere a questa tua domanda e, tragicamente, devo dirti si. D’altra parte, dal punto di vista della Terra e del cosmo, potrebbe essere una possibilità meravigliosa la nostra scomparsa, dal momento che stiamo estirpando qualunque altra cosa. Credo che gli esseri umani non appartengano a questo pianeta, siamo degli alieni che hanno portato distruzione e sarebbe un sollievo per il pianeta se scomparissimo. So che suona orribile ma siamo noi a non somigliare a nessun altro animale o entità sul pianeta, che stiamo distruggendo vite che sono importanti quanto le nostre e in definitiva l’unità e la tranquillità del pianeta. Ciò non vuol dire che questo pianeta non possa essere per sua natura un posto orribile, ma sicuramente la presenza del genere umano lo ha reso ancora più orribile. Di conseguenza, non posso predire il futuro e affermare che scompariremo, ma mi sembra proprio che non possiamo continuare di questo passo: ci stiamo moltiplicando come topi, nell’arco di cento anni la popolazione planetaria sarà raddoppiata: come potremo sopportare un tale aumento demografico apparentemente senza limiti? L’espressione “un’alba di nerità” mi sembra particolarmente appropriata, e la sottoscrivo pienamente: l’alba che possiamo aspettarci non può che essere buia, stiamo cominciando qualcosa che non sappiamo ancora come andrà a finire.
La storia può comunque essere imprevedibile…
Godfrey Reggio: Certamente, ma di sicuro non possiamo permetterci di continuare con questo ritmo: stiamo eliminando esseri umani, stiamo causando moltissime sofferenze, stiamo estinguendo altre specie. Chissà quali saranno gli effetti di tutto ciò, ma indubbiamente noi umani non siamo animali benevoli: pensiamo solo a noi stessi, e vista la direzione in cui stiamo andando sembriamo proprio destinati a un’inevitabile scomparsa. Detto questo, le cose di cui non siamo a conoscenza sono ancora molto maggiori di quelle che sappiamo, e quindi chissà cosa potrà accadere in futuro.
I tuoi film (Koyaanisqatsi, Powaqqatsi e Anima mundi) circolano sulle reti peer-to-peer. Vengono dunque scambiati gratuitamente. Si tratta di una lesione dei diritti d’autore che condanni o un segnale che qualcosa in merito al copyright va ripensata? Oppure sei per la libera circolazione del sapere e ti fa piacere che, in un modo o nell’altro, i tuoi film vengano visti?
Godfrey Reggio: Di sicuro non sono favorevole alla pratica del copyright. Personalmente, non realizzo i miei film a fini di lucro, ma perché il pubblico abbia la possibilità di vederli. D’altro canto, nel mondo reale sono costretto ad aver a che fare con grandi compagnie i cui interessi sono ovviamente tutelati dai diritti d’autore, e questa è una grande contraddizione del mio lavoro che devo accettare. Ma se la gente vuole copiare i miei film o scambiarli sulle reti peer-to-peer, o acquisirli da altre persone, per me va benissimo.
Per quanto riguarda la libera circolazione del sapere, si tratta di un problema più complesso. Il sapere e la conoscenza sono diventati le armi più potenti del mondo: oggi chiunque (non solo gli Stati-nazione) è in grado di costruire un’arma di distruzione di massa. È la stessa ubiquità del sapere, disponibile attraverso le reti tecnologiche, a permettere la distruzione delle società che lo sorregge. È una domanda assai complessa, poiché è il sapere e la conoscenza che in ultima analisi ci distruggeranno.
Originally posted 2021-12-24 07:18:33.